Vestigia

Un breve racconto

di Tommaso Filippucci

Mi parlo. Mi rispondo. Forse non sono più io, forse sono solo il rumore di un pensiero che si è dimenticato la strada per tornare; lì dove il cielo sputa piombo e il pane sa di polvere. Figlio d’un mugnaio che parlava coi topi e d’una madre rinsecchita nel silenzio domestico, io sono stato uomo affamato di fuga, vorace d’altrove. Ma ci sono sabbie mobili dentro il mio torace. Le sento. Mi scavano. Le chiamo “memorie” ma sono larve che ridono. E poi Jean, il mio piccolo Jean, ha smesso di respirare. Da allora qualcosa ha smesso di tremare nel mondo. E il cielo... il cielo ha cominciato a ticchettare.

Mia madre si è trasformata in una sedia. Sta immobile, senza braccia; ogni tanto mi guarda con gli occhi della tappezzeria. Parla con le crepe del soffitto. Io traduco. Dicono: “Non uscire. Il dolore è un animale che sa tornare.” La ferita era viva, la sentivo palpitare con un odio marcio. Dovevo scappare. Dovevo guarire. Ma come si guarisce dall’invisibile?

Io sono un uomo. Ma anche una ferita con le gambe. Ho lasciato il villaggio mentre la mia ombra mi implorava di restare. L’ho sepolta sotto un albero. Mi ha crocifisso. Da allora cammino accanto a un riflesso che si morde la coda.

Il dolore… oh, il dolore non ha voce, ma canta. È una clessidra bastarda. I suoi granelli cadono e mi chiamano per nome. Ogni volta che ne cade uno, io dimentico qualcosa: una parola, un volto, la forma del ciclope. Ma quando l’ultimo granello cade… si capovolge. Sempre. Sempre. Sempre. Un eterno giramento di viscere.

Ho provato a riempire quel buco con carta, preghiere, corpi. Nulla tiene. L’anima è una tasca bucata. Ogni volta credo di aver risolto l’enigma, mi ostino a scavare dentro come un necrofilo d'anime, cercando risposte nel midollo di una disperazione d’avorio. Ma lo strazio è semplice, orribilmente semplice, e la felicità è solo un’interferenza, un errore nel sistema. Un respiro troppo lungo che mi illude d’esser vivo. Poi tutto torna al suo posto; punto, capo, inferno.

Ora devo tornare. Devo varcare il cancello scrostato della vecchia chiesetta. Il legno parla. Dice “Bentornato, figlio del silenzio.” Jean è ovunque. Nelle vetrate, nell’odore della cera, nella piega delle panchine. Con me ho il mio patrimonio—ma le sue pagine ora sono specchi, e io non mi riconosco. Ho anche l’ombrello bianco, quello che mia madre mi diede in quel giorno di pioggia che nessuno ricorda. E il cappello di Jean, che ora pulsa come un cuore immortale.

Io, uomo putrefatto dai secoli, figlio del disturbo e dell’assenza, sento che il tempo sta cedendo. La clessidra che trema. Sento il vetro flettersi. Quando si romperà, non cadrà sabbia. Ma vento. Vento e luce e forse, solo forse, un nome che avevo dimenticato: il mio.

E allora smetterò di cercare—miserabile, martire, ossesso della speranza—perché non c’è fine. Solo un'altra porta. O un'altra clessidra. Capovolta da Dio, o da un bambino. Poco cambia.


Tommaso Filippucci