Uno Scolaro

Un racconto

di Nicolò Silverii

Pareva proprio una bella festa, non una di quelle in cui ti diverti ma sicuramente una di quelle che non ti ricorderai il giorno dopo. Sei amico con tutti e saluti chiunque, osi spingere conversazioni verso argomenti di cui non avresti mai voluto parlare con nessuno, in condizioni normali, o forse solo con il tuo migliore amico... Ma ora sono tutti tuoi migliori amici. E questo ti fa sentire bene perché ti senti accettato e partecipe di qualcosa che, a dire di chiunque, è una gran figata.

Questa sera le ragazze sembrano delle bellissime dee greche e pian piano scopro che vogliono parlare e scherzare con me, mi danno attenzioni e sono contente di sentire le mie pazze idee sull’esistenza e su altre stronzate completamente inutili, che quindi mi piacciono. Ce ne è una però in particolare, una ragazza asiatica che sembra essere uscita direttamente da un manga, magra, bassa ma non troppo, mora e occhi viola. Si viola, ora che ci penso mi sembra leggermente strano ma sono stato ormai inghiottito dalla sua aura paradisiaca che qualsiasi cosa mi sembra magico e straordinario, perciò, gli occhi di quello strano colore non sono un problema. Ho fame, mi giro e prendo qualche schifezza dal tavolo e mi accorgo che persino il cibo non risponde più alla classica sensazione che esso provoca quando viene toccato, mi sembra piuttosto di toccare una nuvola o una specie di vapore; mi sono innamorato. Mi capita spesso. Al massimo dura due settimane, nei casi più estremi, ma di solito in qualche ora l’innamoramento è già scomparso. È una sensazione magnifica e straziante allo stesso momento, sei dentro un vortice di euforia e stravaganza, tutto è più speciale e anche te stesso ti senti più speciale ma manca sempre un pezzo, la persona amata. Amare senza sapere se si è corrisposti è come preparare una festa grandiosa senza aver invitato nessuno, l’atmosfera è magica e sognante ma hai sempre il sospetto che rimarrai da solo per tutta la sera. Per questo ho deciso che andrò a parlare alla mia dea asiatica. Gira sempre con una ragazza che è praticamente il contrario suo: europea, alta ma un po' in carne, bionda e occhi gialli, non mi attira per niente ma quanto meno sa parlare la mia lingua e questo mi rende possibile approcciare con lei e, soprattutto, con l’amica. Mi sorprendo di quanto questa sera appaia tutto molto più semplice per me, in un attimo mi ritrovo in un angolo a parlare con la bionda europea e c’è anche lei, la dea asiatica di cui ora so anche il nome: Luna. Stiamo ridendo come matti non so per quale motivo e mi sento perfettamente a mio agio, il che non succede molto spesso e quindi decido di buttarmi. Glielo chiedo.

Luna però, nel frattempo, è sparita.

Mi giro e mi rigiro ma non riesco a trovarla, a dire il vero non riesco nemmeno a distinguere bene i lineamenti delle persone intorno a me e per di più la ragazza con cui stavo parlando non mi risponde più, mi guarda e ride. Incredulo, alzo il tono della voce pensando che non mi senta a causa della musica, ma ancora niente; allora comincio letteralmente ad urlare mentre lei continua a ridere. Ride di me? Perché non mi risponde? Mi sta prendendo in giro? Più lei ride e più io mi agito sommerso da ondate di dubbi e urlo sempre più forte ma senza sentire la mia stessa voce. Non è possibile che la musica sia così tanto alta, devo assolutamente fare qualcosa perché sto sentendo che il panico sta prendendo il sopravvento e non è un buon segno. Mi faccio forza, raccolgo le ultime energie, mi tiro su e spengo la sveglia. È ora di andare a scuola.

Questa mattina è tutto a quadretti, come se il mondo si fosse tutto a un tratto trasformato in un enorme quadro di Picasso, tutti i colori sono presenti e si aggrovigliano senza mischiarsi in uno stupefacente uragano di cubetti fluttuanti. Ora, all’interno dei quadrati ci sono piccoli vortici che girano perpetuamente su sé stessi mentre persone spigolose si accalcano un po' a destra e un po' a sinistra scatenando un’ola da stadio all’interno di un Guernica decisamente più affollato dell’originale; per fortuna la sofferenza è sì anche qui presente ma in ben minori quantità.

«Biglietto, per favore.»

«Ecco». Un accenno di risatina mi scappa dalla bocca, per carità il rispetto prima di tutto ma non è facile trattenersi quando un lego gigante e roteante ti chiede il biglietto dell’autobus con tutta quella serietà.

Questo momento, questo viaggio, vorrei non finisse mai. Unico momento della giornata in cui posso pacificamente stare in silenzio, ascoltare la mia musica e stare tranquillo che nessuno mai mi romperà il cazzo per nessun motivo. Sono su un autobus alle 7 di mattina insieme ad un autista stanco e menefreghista; una signora che non ha i soldi per comprarsi dei denti nuovi e che per questo sfoggia la sua magnifica parete gengivale al resto della truppa senza ovviamente poter parlare; un ragazzo che per vivere vende abusivamente fazzoletti e rose ai passanti e che a quell’ora sta cambiando quartiere per cercare nuovi acquirenti; una ragazzina che fa la mia stessa scuola e con cui sicuramente non parlerò mai, nella vita reale.

Ti prego, Caronte, non farmi scendere, rimango un altro po' qua in mezzo, né qua né la, voglio stare nel mezzo. Comunque, non è ancora il momento per pensarci, sono appena partito e posso ancora gustarmi quest’unica occasione di farmi i fatti miei. Intanto, fuori dal finestrino piccole navicelle spaziali stanno letteralmente distruggendo la razza umana, sparano laser fulminei e colorati che colpiscono infallibili ogni persona che si espone ad essi: polverizzano all’istante, non rimane un singolo pezzettino di carne umana. Sono felice.

Siamo arrivati. Mi trascino giù dall’autobus e mi butto nella pozzanghera appena a fianco della fermata; non c’è fretta di entrare in classe e che se ne vadano un po' a fanculo se mi rompono le palle per il ritardo, già è tanto che li degno della mia presenza: mi lascio trasportare dalle onde plumbee. Prima o poi arriverò.

Che sensazione fantastica, procrastinare è sempre stato uno dei miei passatempi preferiti. Dover fare un milione di cose e non farne neanche una; avere milioni di idee e non realizzarne mezza, neanche per sbaglio, neanche se cadesse il mondo. Credo che solo le persone più forti riescano a sopportare questo tipo di frustrazione e solo in pochi a renderla una voluttà. Credo che in questo superpotere si racchiuda il senso della vita, anche se un senso la vita non ce l’ha, questo è ovvio. Credo che rendersi conto che siamo solo di passaggio sia facile, in fondo lo sanno tutti, è l’accettazione di questo stato che non tutti sono in grado di raggiungere, ed accettare la nostra vera condizione significa anche, tra le altre cose, capire che il nostro mondo (quello che vediamo con i nostri occhi, non ne esistono altri) se ne andrà con noi quando ce ne andremo e tutto quello che avremo fatto non esisterà più; nonostante qualcuno lo ricordi, noi non lo potremo mai sapere, potremo solo immaginare che qualcuno ci ricorderà quando ce ne saremo andati. Per questo cerco di godere nella soddisfazione dei miei bisogni naturali e niente più; la scuola, il lavoro, i cosiddetti doveri non sono altro che superficiali passatempi utili soltanto a traghettarci sull’altra sponda con un po' più di velocità e spensieratezza.

Spalanco di scatto gli occhi e sento che qualcuno mi sta fissando con l’intensità di chi ti sta puntando una pistola in testa. Sollevo il capo e abbasso lo sguardo, capendo di esserci cascato di nuovo.

«Il tema, per l’amor del cielo, sono due ore che siamo qua e ancora non hai scritto niente, anzi come se non bastasse ti sei pure addormentato! Ho già chiamato a casa per informare tua madre delle tue penichelle, alla prossima sarò costretta a farti sospendere!»

Non dico niente, cosa dovrei dirle? Poverina, questa professoressa, mi fa persino pena. Ci mette tanto impegno e amore nel suo lavoro, lo riconosco, ma io non so apprezzare le azioni degli altri. Sinceramente, mi importa soltanto di me stesso e non vedo perché questo dovrebbe fare di me una cattiva persona... Eppure, nessuno sembra essere d’accordo con me. D’altronde, l’egoismo è parte fondamentale del nostro istinto alla sopravvivenza, no? Evidentemente no. Lo diceva pure Kant che esiste un “imperativo ipotetico” ed uno “categorico” ed è quest’ultimo quello “giusto” da seguire. Non si può sempre essere egoisti, dice lui, e chi sono io per contraddirlo? Pensare qualcosa prima di essere qualcuno non serve a niente, è ciò che ci hanno sempre insegnato ed è per questo che nei temi argomentativi bisogna sempre far riferimento a qualcuno di riconosciuto, altrimenti le nostre frasi sarebbero soltanto scarabocchi effimeri su un foglio di carta...

Mi alzo, faccio lo zaino e, dopo aver recuperato il mio giubbotto, esco, sempre senza dire una parola. Sento di non provare neanche più vergogna per ciò che sempre aveva causato in me un imbarazzo intollerabile: essere sorpreso a fare qualcosa che non dovevo fare. La felicità, ormai, non so più cos’è da qualche anno e da qualche mese non provo nemmeno più dolore. L’indifferenza regna sovrana sulla mia vita e questo vuol dire che non ho più niente da dare a questo mondo, né lui a me.

«Dove stai andando!?»

«A dormire.»

Non rividi più la mia classe.


Nicolò Silverii