Qua si muore di abitudine, come dice Gio Evan. E la cosa più triste è che ci siamo pure abituati a morire d’abitudine, ci adattiamo in fretta noi, ci facciamo mica tante domande. ‘A livella di Totò non rende più tutti uguali soltanto davanti alla morte, ma lo fa ormai, ai nostri tempi, soprattutto davanti alla vita. Siamo uno la copia dell’altro, una la copia dell’altra, e ci va bene così. Siamo esseri tristi, non conosciamo, a questo punto, che un solo modo di vivere e, di conseguenza, pure di morire.
Io non ne posso più però. Non vi sopporto più, non ci sopporto più. Vorrei soltanto dormire, ma il problema di dormire è che non ci si accorge di dormire, almeno fino a qualche attimo prima di svegliarsi ed imprecare contro chissà chi perché l’ora del riposo è giunta al termine. Dunque, nemmeno nel letto trovo un attimo di pace; il tormento interiore è protagonista assoluto della mia vita. Ma l’importante è che esteriormente sia tutto in ordine, no?
Rispondo che va tutto bene e mostro un sorriso a trentadue denti, chiunque mi crederà. Perché per noi l’apparenza è l’unica cosa che conta, in fondo, non abbiamo altro da mostrare né altro da poter vedere. L’interiorità, di fatto, non esiste; o meglio, esiste solamente per chi ne può fare esperienza e quindi ognuno non può che conoscere unicamente la propria. I tentativi più o meno felici che facciamo per cercare di tirar fuori questa interiorità (cosa impossibile) passano tutti, non uno escluso, dall’apparenza, dall’esteriorità, dall’estetica, dalla sensibilità. Oscar Wilde scriveva che solo gli scemi non giudicano dalle apparenze e non posso che trovarmi più d’accordo, per il semplice fatto che non c’è altra misura attraverso la quale poter giudicare: chi non giudica dalle apparenze, di conseguenza, omette di giudicare. Ecco però, spesso, si trascura il fatto che giudicare fa parte della più profonda natura umana raziocinante, la quale ci permette di distinguerci dagli animali e senza la quale saremmo appunto nient’altro che animali, del tutto simili a delle scimmie: scemi, dunque.
Rivendico, allora, la mia natura umana, giudicandoci noi tutti come dei babbei ebbri d’abitudine e ignari della noia che mi hanno immensamente scassato le palle, me stesso compreso. Non ci posso più vedere.
Parto alla ricerca.
Cerco qualcosa di nuovo.