La Bestia

Un racconto

di Tommaso Filippucci

“Non esiste, è solamente uno stupido scherzo del sole”. Questa frase Hans continuava a ripeterla tra sé con incurabile rassegnazione in un silenzio che strilla aiuto. Eppure, era lì, come aggrappata sullo scaffale dei romanzi classici, a fissarlo con il suo sguardo vuoto.

Le contorsioni del caos che prendevano piede nella mente di Hans, si riflettevano nei suoi occhi senza pupille. Raccontavano una guerra di trincea. Dipinti di bianco, sbandieravano una resa che non sembrava arrivare. E il nemico avanzava, aveva sete di sangue. Voleva vederlo soccombere sotto le sue grinfie, bruciare la sua anima nel rogo del dolore. Hans sperava che almeno il sig. Kaput Ki se ne accorgesse, o, che volesse il cielo, smettesse di curare il suo esile trifoglio rosso, per notare il supplizio che lo pervadeva. Il povero vecchietto lo aveva osservato per tanto tempo. Nella sua mente era palese la sofferenza dell’indifeso libraio, ma non aveva la forza di entrare in quella libreria. Gli pareva un abisso senza uscita.

Quel sole, colpevole nella mente delirante di Hans, stava pian piano venendo sbaragliato da un’orda scura pronta a spazzare via tutte le sue disillusioni prima di sera. La sagoma nera era ancora lì. Come una radice che tiene stretto un albero, quell’ombra non lo voleva abbandonare. Le strade iniziavano a svuotarsi. La tempesta era alle porte. Solo il sig. Kaput Ki era ancora fermo. Padre di un figlio destinato a morte certa, cullava in modo sconsolato il suo trifoglio rosso. Nella Libreria erano rimasti soli. Hans e la sagoma nera che lo tormentava da anni avevano di fronte un’altra notte infinita. Rigido come un animale imbalsamato, aveva salito gli scalini uno ad uno e, a ritmo di flauto traverso su note dilaniate, si era diretto nel salotto. Seduto sul divanetto al centro della stanza conficcava le mani sul volto. Le sue unghie stridevano sulla pelle. Voleva sradicarsi via quegli occhi che lo condannavano al sovrano strazio. Ma l’ombra era pronta a tagliargli le palpebre con la corsesca e ad usare i bulbi come sputacchiere. La tempesta avanzava e le sue interiora bollivano senza tregua. Non poteva ancora saperlo, ma quella orribile notte al lume del dolore, lo avrebbe trasformato in una faina ingorda.

Attorno a lui, la stanza era diventata il palcoscenico di una tragedia e l’ombra era un Dio greco in quel salotto. Il divano si trovava al centro ed era rivolto verso una parete spoglia. Nessun quadro, nessuna foto, nessun ornamento, una tela bianca su cui disegnare l’inferno. Sì, perché se si potesse dipingere il suo girone, ci si troverebbe davanti a una gabbia per uccelli, circondata da figure indistinte volte a spegnere i propri mozziconi sulle sue piume. Ma una cosa era certa, in quella scena dantesca, Hans era solo e questa volta non vi era alcun Virgilio a dettargli la via.

Alle sue spalle un’enorme finestra permetteva ai lampi di fungere da metronomo ai movimenti dell’ombra. Erano distanziati da pochi secondi della stessa durata. La dovizia dei rumori percepiti in quella stanza era ormai infinita, ma quello di Hans era un mondo senza suono, uno dove, forse, esso non era mai stato creato. Tuoni come pugni di ferro bussavano alla porta del suo petto poco prima di sfondarla, gocce come pietre da lapidazione incrinavano il vetro che lo divideva dall’apocalisse e vento come veleno di una serpe si infilava nel ventricolo del cuore paralizzando ogni suo brusco movimento. Qui sorgeva il teatro dell’ombra, qui si inscenava lo spettacolo del tormento e Hans era pubblico inerme della sua stessa mestizia.

Era ormai impossibile distinguere il suo corpo dal vecchio divano. Pareva tremasse quasi fosse infestato da termiti. Si trovava in quel salotto da quasi cento anni. Era un divano piuttosto scomodo, con un tessuto di crine a righe grigie e marroni. Lo aveva comprato il bisnonno Dmitrij nel lontano 1910. Era rotto nella maggior parte degli angoli, aveva anche perso uno dei piedini e ora una pila di vecchi libri ricoperti di polvere lo teneva in bilico. Erano romanzi con copertine del tutto rovinate che formavano la casa di una muffa di velluto; romanzi di D’annunzio, Huysmans, che considerava inutili. Le sue membra erano sempre più incollate a quel tessuto crespo, e ora levava a forza le mani dal volto per tentare di scavare la federa in cerca di un cunicolo, una via d’uscita, un labirinto in cui anche la bestia potesse perdersi. Ma come poteva essere definita bestia se nemmeno poteva sfiorarlo?

La mente di Hans era in lenta convalescenza dopo una brutta malattia. Quel dolore che provava nell’affondare i polpastrelli nel divano iniziava a diventare un formicolio senza sosta. Volgeva gli occhi intorno. Dalle pareti umide e annerite cadevano gocce che si posavano sul terriccio di un vaso ocra di porcellana e l’ominide cercava conforto nell’enorme libreria ricoperta da una patina di muschio. Era infatti tra quegli scaffali che riponeva i suoi romanzi preferiti, sempre in bella vista, così da sentirsi sollevato al solo pensiero che fossero lì. Voleva sapere che non era l’unico; l’unico uomo solo, l’unico senza scopo, l’unico condannato a morte. Eppure, era diverso da tutti. Tanto era malato, credeva di essere il protagonista di un romanzo di Turgenev. Era convinto di essere quell’uomo superfluo di cui centinaia di pagine raccontano, e, in effetti, le qualità di tale personaggio le possedeva tutte. Pensava di essere Culkaturin dopo una forte gelata notturna, pronto a sorbire la morte annunciata. Ma bensì questi fosse un uomo del tutto superfluo, in confronto ad Hans pareva un giovane aristocratico. Aveva almeno avuto la minima forza di agire invano, la minima decenza di innamorarsi, di esporsi e farsi lacerare il cuore da una stupida ragazzetta. Nella vita di Hans, invece, non vi era alcuna Liza Kirillovna, alcun principe N., alcun Biz’menkov, nemmeno una Terent’evna che si prendesse cura di lui. Se fosse morto in quel medesimo istante il suo scheletro sarebbe rimasto sconosciuto al mondo esterno e la sua carne divorata dal vento in una mattina invernale.

Ma la convinzione nella mente di Hans era troppo incalzante. Si allietava allo stupido pensiero che potesse essere migliore di tutti quei protagonisti, di valere qualcosa e di poter sconfiggere quell’ombra una volta per tutte. Il ritmo dei tuoni era cambiato. Quel silenzio universale era stato interrotto dal Do di un pianoforte, le vene del suo collo erano corde di violino pronte a strapparsi e le sue ossa si stavano pian piano staccando dal corpo come bretelle di una vecchia salopette. Per la prima volta si trovava in piedi dentro a quello sfogatoio per demoni. I calcagni sporgevano dalle pantofole troppo piccole e toccavano le assi sbiadite del pavimento. Il freddo trasaliva lungo la sua pelle senza provocare alcuna conseguenza. Hans non aveva più un volto e ora, davanti a uno specchio vuoto, si ergevano preda e predatore. Con callida ferocia, l’ominide si aggrappò alla libreria. Prese il vaso di porcellana e lo scagliò contro la parete, lasciando sulla tela una chiazza nera e marrone che colava come pioggia sul pavimento. Iniziò a sradicare libri dalle trafile e a lanciarli come se impugnasse una fionda di piume, ma l’ombra era ancora lì. La tela era ormai un quadro di Pollock ed Hans tentava di distinguere la figura tra il terriccio e gli stracci di pagine ammassate in modo da continuare a colpirla. L’ombra si faceva tuttavia sempre più imponente, la paura era la sua essenza e la rabbia dell’ominide le faceva solamente guadagnare linfa vitale.

Hans realizzò solamente in quell’istante che non poteva uccidere un qualcosa che era nella sua testa, un qualcosa che lui stesso aveva creato. Un cumulo di presunzione lo aveva condannato a osservare, a diventare schiavo della sua stessa mente e ora scappare era l’ultima opzione. Si avvicinò alla finestra puntellata da chiodi d’acqua. Rami come serpenti si muovevano intrecciandosi tra di loro e gli sbarravano l’uscita. Provò ad aprirla e a spezzare la corteccia che continuava a infittirsi ma veniva punto da qualche dente avvelenato ogni qual volta tentava di sfiorare i rami.

Pochi spioncini rimanevano tra la sua cella e il mondo esterno. Hans accostò lo sguardo ad uno dei piccoli spiragli. La tempesta aveva spento la città. Ogni lampione aveva perso la propria aurea, tranne quello che, come una lampadina di un vecchio magazzino, puntava sulla schiena di un vecchietto inerme. Era piegato, ingobbito quasi a prendere la forma di un guscio di lumaca. Il vento lo maltrattava, i rami si schiantavano contro il suo esile corpo ma il sig. Kaput Ki rimaneva impassibile. Tra le sue braccia il trifoglio risplendeva di luce propria, come mai aveva fatto prima. I suoi piccoli petali color violaceo si posavano come farfalle appena nate su foglie eliotropio e il gambo, teso e resistente come marmo antico, cercava di infilare il proprio capo dentro la giacca del protettore. Era una scena che Hans poteva solamente osservare dall’alto della sua apocalisse mentale ma quella scintilla lo aveva destabilizzato, come se quella farfalla stesse facendo il bozzolo dentro al suo cervello. Immagini passate attraversavano i suoi occhi, ricordi chiudevano l’angolo acuto del tempo.

La luce scialba illuminava una piccola bambina accanto al povero vecchietto. Aveva un semplice vestitino a fiori rosa e gialli e delle calze a righe che le toccavano la punta delle ginocchia. Stringeva con forza la giacca dell’anziano come per invitarlo ad alzarsi. La costante pioggia bagnava i suoi capelli color cotone e trasformava i serici riccioli in piccoli stracci da cucina. Placida, rimaneva in piedi sui suoi zoccoli neri e ora accarezzava il madido cranio calvo dell’uomo. Hans sapeva benissimo chi fosse. L’aveva vista una moltitudine di volte mentre, con delicatezza disumana, accudiva il trifoglio rosso assieme al sig. Kaput Ki; ma qualcosa di più profondo legava l’ominide alla bambina. Erano passati 532 tramonti (Hans li aveva contati) dalla prima apparizione della piccola e poco dopo l’ora di pranzo di un lunedì come gli altri, Hans sentì un rumore sordo, un gong rimbombante provenire dall’entrata della libreria. La porta si era aperta e la bambina saltellava davanti a lui con un esile annaffiatoio verde tra le mani. I suoi zoccoli andavano a tempo con le lancette dell’orologio e non appena i due sguardi si incrociarono, Hans provò ad accennare un disadattato e sgualcito sorriso fisarmonico. La bambina, però, con un’occhiata tralice, afferrò gli organi interni dell’ominide, si tolse un ricciolo finitole tra gli occhi, e, continuando a saltellare, uscì dalla porta accostandola con il secondo e terzo dito della minuscola mano. Fu l’ultimo istante in cui la vide, l’ultimo incontro con un umano, l’ultimo sguardo di un essere reale. Ora lei era lì, triste platea della caducità del suo trifoglio. Tentava, con un fazzoletto di seta bianca, di asciugare le lacrime del sig. Kaput Ki, ma il vento le strappava via dal suo volto e le rimpiazzava con aghi di ferro determinati a farlo cedere; l’ultima ragione del suo essere umano se ne stava andando e sarebbe stato in grado ornarsi di spine e nuotare nella pece pur di non mollare. I serpenti si chiusero come si chiude a chiave una cella d’isolamento. Un fulmine colpì la lampadina. L’ominide non aveva più nessuno spiraglio per vedere la luce esterna, era nuovamente solo dentro l’oblio.

Un ruggito di vento lo scaraventò a terra. Hans aveva lo sguardo rivolto verso il muro di serpenti. Sperava di poter prendere fiato e rialzarsi ma dai mucidi angoli della finestra iniziò a crearsi uno sciame di edera nera. Sembrava avesse vita propria. Si muoveva aggrappandosi alla parete come sangue arterioso per poi infestare il pavimento. Afferrò i piedi di Hans e non li lasciava andare. Come filo spinato che cresceva sul suo corpo, mutilava la sua pelle. La tempesta sembrava non finire mai, l’orologio non voleva stare zitto e l’ombra era sempre più mostruosa. Il buio del tuono le permetteva di cambiare forma; ora una vespa, ora un ragno, una iena, un avvoltoio. Hans tentava di indietreggiare. L’ombra, come un direttore, dirigeva l’orchestra della morte e, stringendo tra le mani un diapason, coordinava i suoi strumenti contro l’ominide. Hans si sarebbe voluto strappare di dosso quelle foglie nere che lo avvolgevano, urlare, parlare, respirare, ma non ne era capace. La sua mente lo stava soffocando e l’edera continuava a ferirgli le gambe, le mani, il collo, l’anima. Al contrario di Cincinnato, sapeva che la morte sarebbe arrivata in una questione di secondi, ma non aveva alcun Rodion pronto a concedergli un valzer palliativo. Era pronto all’ennesima sconfitta, all’ennesima resa. Ora l’ombra prendeva le sembianze di un boia dagli occhi rossi e una saetta falciatrice disegnava un cappio al collo dell’ominide, ma nell’esatto momento in cui l’ultimo fulmine schiantava tale immagine sulla tela, lo sguardo di Hans mutò in una pistola carica puntata alla tempia del mostro. Chiuse gli occhi, azionò il grilletto.

Stracci di pagine galleggiavano per la stanza, mosche come aeroplani gli volavano intorno. Il tappeto di acqua stagna bagnava la sua pelle corrugata e ondeggiava ad ogni goccia che cadeva dal soffitto. Una macchia di sole si posò sul trasandato volto della bestia e schiarì la sua barba di Bouclé rovinato. Aprì le palpebre. La luce gli feriva l’iride e trasformava i suoi occhi in fiumi di capillari. Lo strascinarsi di un carro faceva tremare il vetro della finestra. Dalla strada un ronzio di voci seguiva la melodia distorta di un’arpa. Appoggiò la mano destra sul divano ormai isola nel salotto oceanico e a forza si alzò. Volgeva lo sguardo intorno, impaurito, agitato, spaesato. Non vi era più alcuna traccia dell’ombra. A passi sbilenchi si diresse lento e tremolante verso la porta. Adagio scendeva le scale seguito da una cascata d’acqua e accompagnato dal rumore scalpiccio dei piedi bagnati sul legno di quercia antica. La mano ruvida faticava a scivolare sul corrimano e incideva sull’equilibrio creatosi in quella discesa dall’inferno. Ad ogni scalino il ronzio diventava sempre più un frastuono.

A pochi metri dalla vetrina della libreria una folla osservava la strada. Figure sfuocate chinavano il capo e altre, più basse, si alzavano sulle punte in cerca di uno spiraglio. Hans si avvicinò alla porta e con il gomito squamoso spinse il vetro. La folla ora taceva. Quattro uomini con una tunica bianca trainavano un carretto privo di ruote sul grigio asfalto. Il solco lasciato dal baghero era riempito da coriandoli che esili bambini spargevano lungo il suo corso. Trasportava una piccola bara aperta di mogano scuro che si bagnava negli angoli ogni qualvolta una pozzanghera tentava di portarsela con sé. Hans tentava a fatica di mettere a fuoco quel corpo inanime che tremava ad ogni strattone dei quattro uomini. Capo liscio seta, gobba che inarcava le spalle, petali rosa sul cuore. Lo sguardo del sig. Kaput Ki non sembrava più lo stesso, non aveva più rughe, ciglia, pupille. Un respiro di marmo attraversò il corpo della bestia. Il carretto si fermò. Due sterne senza ali cinguettavano sui rami pericolanti di un albero inclinato e andavano a tempo con la melodia stonata di un’arpista privo di dita. La folla si infittiva, il carro faticava a respirare. Un giullare appoggiato alla staccionata posava sigarette alla bocca ma il suo pianto sconsolato le trasformava una ad una in mozziconi. in testa un cappello a punta appassita scuoteva dei sonagli rotti come vetri sul parquet. Tra le mani teneva una fiaschetta di rum. L’alito infiammato contrastava l’odore di fumo ed entrambi confluivano in un viso scarno e trasandato che traspariva dalle borse sotto agli occhi semichiusi. Ai suoi piedi le foglie venivano soffiate dal vento nel verso sbagliato mentre il corpo veniva coperto da un telo nero.

Hans si fece strada tra figure di colla. Non vi era più alcuna coscienza nel suo animo. Intorno a lui odori e colori noti si mescolavano ad una trasparente e anonima folla. Il carro riprese il suo cammino e la sua figura iniziò a diluirsi in un mantello di polvere ocra. Se ne andava tentando di nascondersi tra l’aria torpida di una città atona, laggiù, dove la vista cedeva, dove tutto aveva un senso e dove un fulgido trifoglio rosso aspettava intrepido l’arrivo del suo protettore. Hans si ritirò incerto verso la sua libreria. Si sentiva una bambola senza una pezza. Si accostò a quella bara che usava come bancone e volse lo sguardo verso lo scaffale dei romanzi classici. Accennò un sorriso forzato che tramutò in una smorfia di ribrezzo.

Non so dirvi se mai lo capirà o se mai guarderà allo specchio la sua astrazione. Forse un giorno, per un istante, aggrotterà le spalle, riconoscerà la sua pallida, inutile esistenza in ogni particella d’aria e osserverà finalmente la sua vita con ripugnanza. Un trucco mnemonico gli ricorderà l’esatto momento in cui tutto iniziò, Il tiepido secondo in cui i suoi lineamenti svanirono e in cui il dolore perse il suo sapore speziato. Quel giorno entrerà in contatto con la sua insaziabilità e la sua insignificanza e non riuscirà a perdonare la sua anima. Si trascinerà tra quella folla di stranieri simili a lui. Si getterà ai loro piedi e implorerà di essere graffiato, ferito, ucciso, sperando che ciò possa riportare la sua ombra a casa. Ma essa non esiste più, è solamente uno scherzo del sole.


Tommaso Filippucci